Lo spread formativo

1 Un confronto fra Italia e Germania

Sul mercato del lavoro italiano prova ad intervenire la legge di riforma 92 del giugno 2012 con esiti ancora da valutare e un impianto di norme che, per le politiche attive ed i servizi per il lavoro e la formazione, rimanda a decreti legislativi e a provvedimenti ulteriori. La questione è determinante: migliorare il funzionamento del nostro mercato del lavoro è un requisito fondamentale per superare la recessione e andare verso una crescita duratura.
Molti aspetti vanno analizzati in rapporto con l’Europa che funziona, che reagisce meglio dell’Italia alla sfida dei mercati, del lavoro e della competitività. Il mancato incontro tra la domanda delle imprese e l’offerta formativa è uno : patiamo uno “spread educativo”, per mutuare un termine in voga, o un mismatching (discordanza, non corrispondenza, ecc.) come preferiscono dire gli esperti. Produttività, salari, qualità, occupazione, formazione e scuola: vi è tra essi un legame stretto, che il processo di specializzazione e qualificazione richiesto dall’economia del terzo millennio rende ancora più decisivo.
La distanza tra scuola e lavoro – e in particolare tra istruzione superiore, Università ed impresa – è una delle ragioni della nostra perdita di competitività rispetto ai paesi dell’Unione europea. Tra questi la Germania, da cui, negli ultimi dieci anni, ci separano trenta punti nel costo del lavoro per unità di prodotto.
Italia e Germania sono nazioni comparabili, per la natura delle istituzioni economiche e sociali e per le caratteristiche del tessuto economico. Uno dei nostri ritardi evidenti appare dal confronto tra i due diversi sistemi educativi e formativi. Un recente lavoro di ricerca della Fondazione Rocca e dell’ Associazione TreeLLLe, I numeri da cambiare. Scuola, università e ricerca, ci mostra in modo puntuale la natura e le cifre di questo divario, che è aumentato senza che si avvertano inversioni di rotta significative.
Rispetto al Pil, la Germania spende più dell’Italia per l’istruzione e la formazione, ma la spesa per l’istruzione primaria e secondaria è più o meno la stessa e così il numero degli studenti per insegnante. Differenti sono invece altri dati: retribuzione oraria degli insegnanti ( quello italiano guadagna il 30 per cento in meno), gli abbandoni ( più alti da noi: 18 per cento contro 10 per cento) e il punteggio degli studenti 15enni nelle competenze matematiche ( 482 contro un “valore medio normalizzato” di 500). Inoltre la Germania spende il 35 per cento in più dell’Italia per ogni studente universitario, investendo soprattutto nel rapporto con le imprese e con il mondo del lavoro.
In Germania il 14 per cento dei giovani consegue un titolo di istruzione post secondaria professionalizzante, che guarda alle domande del sistema produttivo. Grande la differenza con l’Italia, dove la specializzazione professionale post secondaria riguarda meno dell’1 per cento dei diplomati. E’ un divario non da poco, che si cerca ora di colmare con la promozione di indirizzi formativi specialistici, come gli ITS (Istituti Tecnici Superiori), in grado di avvicinare la formazione alle vocazioni e alle specificità dell’economia locale.
Il percorso accademico italiano resta in ogni caso troppo lungo e con poche esperienze di lavoro. Questo non permette di consolidare nelle Università la presenza di incubatori di progetti di impresa per trasformare la ricerca in innovazione. La capacità del nostro sistema di ricerca universitaria di produrre brevetti destinati al made in Italy è limitata e pochi sono gli atenei dotati di incubatori di impresa adeguati. Nessuna università italiana è presente tra le prime 100 università al mondo per qualità e rapporto con le imprese, contro le 7 università tedesche e le 10 inglesi. Tra le prime 500 università al mondo ( classifica di Shanghai) quelle italiane sono 22, 39 quelle tedesche e 37 quelle inglesi.
Una piattaforma educativa europea potrebbe favorire la crescita e ridurre le distanze economiche e sociali tra i paesi membri. Agire sullo spread educativo è vitale e urgente.

2 Il lavoro cala e le imprese non trovano candidati

Occupazione che diminuisce in modo drastico e imprese che non trovano candidati: questa l’evidenza empirica di un mercato del lavoro italiano poco funzionante. Grazie all’aumento delle opportunità di lavoro avvenuta fino al 2008 ( soprattutto con avviamenti a termine), si è sostenuto che questa fosse una disfunzione, se non fisiologica, almeno sopportabile. Il fatto che durante la grave crisi attuale le imprese non riescano a ricoprire i pochi posti disponibili dice molto sul ritardo del nostro sistema formativo nel fornire le competenze richieste dal tessuto economico.
I dati Unioncamere del terzo trimestre 2012 mostrano che su 158mila assunzioni previste nel periodo ben 21mila sono considerate dalle imprese di difficile reperimento. Riguardano soprattutto il terziario ( ben 15mila) e le piccole e micro imprese. Il gap rispetto ai profili richiesti interessa in varia misura tutto il territorio nazionale.
Difficili da trovare sono figure specialistiche come matematici e laureati in fisica. Mancano pure tecnici in campo informatico, operai specializzati nel tessile e calzaturiero e nella meccanica di precisione. Servono tecnici dei servizi alle persone e infermieri, ingegneri ed esperti di marketing. Altre analisi settoriali rilevano che, oltre ai laureati con esperienza e competenza, sono carenti profili di mestieri artigiani più tradizionali. Si cercano falegnami, saldatori, carpentieri, calzolai, cuochi, macellai, fresatori, piastrellisti, elettricisti e meccanici. Le associazioni artigiane sono in allarme, ma questi dati vengono registrati anche dagli osservatori delle agenzie del lavoro.

Soprattutto le imprese di minore dimensione lamentano che i candidati sono inadeguati non tanto per il titolo di studio ma per la scarsa preparazione ai compiti richiesti. Prova ulteriore di un sistema formativo che va ripensato perché risponda meglio ai fabbisogni professionali reali.
L’impegno riguarda le forze sociali, Governo e Regioni, a cui in questi anni sono state affidate risorse e responsabilità importanti sul capitale umano, senza molti risultati. E’ necessario promuovere percorsi di alternanza scuola-lavoro, favorire la diffusione di tirocini, realizzare la riforma dell’apprendistato, aprire a percorsi formativi specialistici e post secondari come gli ITS; dare vita a un sistema stabile di certificazione delle competenze. Ciò aiuterebbe anche le nuove generazioni ad accostarsi a mestieri e a lavori oggi poco attrattivi e che invece provengono dalla migliore tradizione del saper fare italiano.

3 ITS e master, per la formazione superiore

Fra gli interventi utili a recuperare il ritardo nel rapporto tra scuola, sistema formativo e mondo del lavoro emerge la scelta di puntare su un nuovo sistema di istruzione tecnico-professionale, centrato sugli ITS, e sulla qualificazione e specializzazione dei master. L’obiettivo è di preparare competenze specialistiche per una domanda non soddisfatta di profili professionali medio alti.
Il potenziamento dell’istruzione tecnico-professionale prevede il decollo dei Poli tecnico-professionali e l’avvio degli Istituti Tecnici Superiori, ITS, canali post secondari paralleli ai corsi accademici per la formazione di tecnici superiori nelle aree tecnologiche cruciali per l’economia e la competitività. I Poli sono reti fra istituti tecnici e professionali, centri di formazione professionali accreditati e imprese per favorire lo sviluppo della cultura tecnica e scientifica e l’occupazione dei giovani “anche attraverso percorsi di apprendistato e nuovi modelli organizzativi, come le scuole bottega e le piazze dei mestieri”, sperimentate con buoni esiti in Lombardia e Piemonte. Sono già costituite 62 Fondazioni ITS – vi partecipano scuole, enti di formazione, imprese, università, centri di ricerca, enti locali – che hanno attivato 80 percorsi, cui si aggiungono 71 nuove prime classi dell’ anno scolastico corrente. Un documento di Linee guida approvato da Stato e Regioni nel settembre scorso riprogramma l’offerta per “filiere formative” sulla base di diciassette principali filiere produttive nazionali, ponendo al centro la funzione degli ITS.
Si prevede la verifica delle competenze finali degli allievi e la valutazione della loro occupabilità; ovvero il tasso di occupazione a 6 e a 12 mesi dal conseguimento del titolo, da cui dipenderà anche il sostegno finanziario pubblico alle Fondazioni.
La sfida dell’innovazione e della specializzazione riguarda anche uno strumento non sempre ben utilizzato in questi anni: il master di secondo livello. Esso è importante per promuovere esperienze in impresa per i laureati e per qualificare chi già lavora. I master in Italia sono 2000 ( una loro classificazione è curata dall’ASFOR). Molto seguiti i master all’estero, che hanno un approccio molto orientato verso il rapporto diretto con le imprese. Per un laureato, alla prima esperienza di tirocinio o di lavoro a termine, recarsi all’estero per seguire un buon master può essere una scelta vincente per il futuro. Anche in Italia vi sono validi master in management e hanno particolare successo quelli promossi da reti tra università di diversi paesi. In questo caso è utile verificare l’effettivo raccordo tra la partecipazione al master ed l’impegno dentro le aziende. Non è detto infatti che il costo di un master, peraltro notevole, sia sempre compensato da un’esperienza di lavoro. Per questo sarebbe utile un’ agenzia nazionale di valutazione dei master e di orientamento degli utenti fra le numerose e diseguali proposte.