Il lavoro delle donne, spinta per la crescita innovativa

I paesi europei più forti hanno due caratteristiche ben precise: un alto tasso di occupazione e una forte presenza della componente femminile nel lavoro, nell’economia, nella politica. Il dato è frutto di tendenze maturate nel tempo, legate a modelli di società in cui la promozione dell’autonomia individuale è fondamentale. Esso discende pure dalla convinzione, fondata, che la presenza delle donne nella vita economica sia un fatto non solo di giustizia, ma anche di innovazione, tale da rendere un sistema nazionale più forte per tutti: i sistemi più dinamici in Europa per crescita e qualità, che hanno retto meglio questa fase di crisi, sono quelli con una maggiore partecipazione della componente femminile. In questi paesi si costruiscono asili in azienda, si fanno interventi per la conciliazione tra lavoro e famiglia, si organizza una società a misura di donna, non soltanto per garantire pari opportunità ma per investire su una crescita basata sulla coesione sociale.
L’Europa che reagisce alla disoccupazione lo fa in buona parte grazie alle donne e all’efficacia di politiche di genere che hanno dato valore alla presenza femminile nei luoghi di lavoro e nei luoghi delle decisioni. La presenza della donna è il banco di prova per vedere come si tengono insieme qualità nell’economia e qualità nella società. C’è un chiaro nesso tra questi due aspetti e l’Italia ne è la dimostrazione evidente.
Il quadro complessivo è negativo: la presenza delle donne nei luoghi decisionali, nell’economia e nel lavoro è in forte ritardo. L’occupazione femminile è intorno al 46% ( contro il 67,7 degli uomini), quasi 15 punti sotto la media europea. Il ritardo – di oltre venti anni, secondo alcuni osservatori: i nostri dati del 2010 sono uguali a quelli della media dei paesi europei del 1987 – corrisponde al ritardo sulla capacità competitiva e sulla crescita del Paese. La Banca d’Italia ha calcolato che, se riuscissimo a centrare l’obiettivo di Lisbona di un’occupazione femminile pari al 60%, il Pil crescerebbe del 7%.
Se osserviamo le singole regioni italiane verifichiamo che si sta meglio dove le donne sono più attive e che il livello di sviluppo fra i territori è direttamente collegabile al tasso di occupazione femminile: un termometro per misurarne lo stato di salute. L’Italia delle reti di impresa e del terziario avanzato, a maggiore componente innovativa e femminile, sta meglio dell’Italia del declino industriale, più maschile. Il ritardo dell’occupazione femminile spiega bene lo storico divario del Mezzogiorno: qui solo tre donne su dieci lavorano ( contro una media italiana di una su due). Le recenti difficoltà di alcune regioni del Centro Italia, come il Lazio e l’Abruzzo, coincidono con la caduta della forza lavoro femminile.
Femminilizzare l’economia serve a tutti. C’è però bisogno di scelte e politiche, di strumenti e servizi adeguati. In primo luogo scelte sul mercato del lavoro e sull’organizzazione aziendale. Un buon orientamento permetterebbe, ad esempio, di non affollare con le nostre giovani migliori decine di corsi di laurea privi di sbocchi occupazionali.
Mettere le donne al centro delle politiche è una questione fondamentale; alcune Regioni stanno riflettendo su come programmare lo sviluppo per favorire l’impatto di genere. Rivedere le parti arretrate del nostro modello di sviluppo significa andare oltre attività produttive a forte presenza maschile, ed entrare in quell’economia della qualità e del sapere in cui il valore delle donne è più riconosciuto.